Nel panorama della panificazione, il ruolo della farina va ben oltre il semplice ingrediente base: è un elemento decisivo per il successo di ogni impasto. Non si tratta solo di scegliere un tipo a caso o basandosi sull’etichetta, ma di capire come le sue proprietà tecniche influiscono sul risultato finale. Dietro una focaccia ben lievitata o un pane dalla mollica soffice, c’è una combinazione precisa di caratteristiche che determinano elasticità, struttura e consistenza. Un dettaglio che molti sottovalutano, ma che chi lavora quotidianamente con farine e lievitati conosce fin troppo bene.
Le variabili in gioco sono diverse, e per orientarsi tra le tante farine oggi disponibili sul mercato è fondamentale conoscere alcuni parametri chiave che definiscono il comportamento dell’impasto sin dalla prima fase di lavorazione. In particolare, la forza, la tenacità, l’estensibilità e un valore chiamato falling number si rivelano strumenti preziosi per chi desidera trasformare un’idea culinaria in un prodotto costante e di qualità. Nel corso dell’anno, nelle diverse regioni italiane, queste caratteristiche possono fare la differenza anche quando si lavora con materie prime simili, soprattutto nelle produzioni artigianali o industriali.
La forza della farina e cosa cambia nell’impasto
Con la lettera W si indica la forza della farina, cioè la capacità di assorbire acqua e di sviluppare glutine, componente fondamentale che conferisce elasticità e struttura all’impasto. Una farina con valore W elevato riesce a trattenere più liquidi, creando così impasti più elastici e resistenti durante la lievitazione e la cottura. Questo si traduce in un prodotto finale con un volume maggiore e una consistenza ben definita, ideale per pani di qualità e prodotti da forno che richiedono una lievitazione lunga.

Al contrario, farine con una forza inferiore si adattano meglio a ricette con tempi di lievitazione più brevi o dove la morbidezza della mollica ha la priorità, come succede in dolci tipici con burro o grassi importanti (pensiamo a panettone o pandoro). Un fenomeno che in molti notano solo d’inverno, quando varia la qualità della farina a causa del clima, rende indispensabile monitorare questa caratteristica per risultati sempre stabili.
La distinzione tra farine forti e deboli guida spesso la scelta di panificatori e pizzaioli, specie nel Lazio e nel Nord Europa, dove le diverse tradizioni di forno richiedono risultati differenti. Un particolare da non trascurare: la forza non è tutto, ma è un punto di partenza imprescindibile per ogni ricetta seria.
Tenacità ed estensibilità: equilibrio per un impasto perfetto
La tenacità di una farina misura quanto essa resiste alla deformazione durante la lavorazione. È un indicatore della capacità dell’impasto di non strapparsi o allungarsi oltre modo quando viene manipolato. Un valore di tenacità elevato significa che l’impasto sarà piuttosto robusto, resistente all’appiccicarsi e adatto a preparazioni con elevata idratazione. Tuttavia, se la tenacità diventa eccessiva, l’impasto può risultare difficile da lavorare, con il rischio di una mollica dura e asciutta negli alimenti finiti.
Di contro, l’estensibilità indica quanto l’impasto è in grado di allungarsi senza rompersi, fondamentale per avere un glutine che consenta una mollica aperta e leggera. Un eccesso di estensibilità, però, può ridurre il volume finale e causare una mollica più compatta. È il rapporto tra tenacità ed estensibilità, chiamato P/L, che fornisce un quadro più completo: valori ottimali si aggirano intorno a 0,5-0,6 per garantire una lavorabilità uniforme e un risultato equilibrato in forno.
In Italia e in altre zone con tradizioni panificatorie affermate, questo equilibrio è un elemento che tecnici e panettieri monitorano attentamente. Infatti, la gestione di questi parametri incide direttamente sulla capacità di ottenere prodotti di qualità, soprattutto in produzioni che usano alte idratazioni o nella preparazione di impasti lievitati a lungo.
Il falling number e il ruolo dell’amilasi nella lievitazione
Il falling number è un indicatore sintetico che misura l’attività degli enzimi amilasici nella farina, responsabili della trasformazione dell’amido in zuccheri semplici, nutrienti essenziali per i lieviti. Un valore alto di falling number segnala un’attività enzimatica contenuta, che si traduce in lievitazioni più controllate. Al contrario, un valore basso rivela un’alta attività enzimatica, che può portare a lievitazioni troppo rapide e a prodotti con mollica umida o collosa.
Questo parametro, espresso in secondi, tende a variare tipicamente tra 300 e 350 a seconda delle esigenze specifiche: farine destinate a prodotti a breve lievitazione si attestano verso il limite inferiore, mentre quelle per lievitazioni lunghe sono intorno a 350 secondi. Un dettaglio che sfugge a chi vive in città, dove spesso si considerano solo ingredienti visibili senza mai approfondire l’importanza della chimica interna della farina.
Valori troppo alti o troppo bassi possono indicare cattive condizioni di conservazione della farina o problematiche nella sua lavorazione. Per questo motivo, panificatori e fornitori in regioni come il Lazio o il Nord Italia tengono sotto controllo questo parametro, soprattutto quando si tratta di produzioni artigianali di alta qualità. Conoscere il falling number aiuta a prevedere il comportamento della farina in forno e a modulare la ricetta di conseguenza.
In definitiva, scegliere la farina giusta significa saper leggere segnali tecnici che influiscono direttamente sulla riuscita di un prodotto da forno. Una conoscenza approfondita permette di evitare problemi durante la lavorazione e di raggiungere quella qualità che fa la differenza, sia in una panetteria artigianale che in una produzione industriale di massa. Una tendenza che molti italiani, esperti e appassionati, stanno già osservando con attenzione crescente.
